LE 53 GIOVANI VITE SPEZZATE DEI NOSTRI MILITARI CADUTI IN UNA GUERRA INUTILE E SANGUINOSA: Offende oltremodo la repentina ritirata deli americani e degli alleati occidentali

La notizia arriva in una serata rovente di un ferragosto strano, privato del suo significato e della sua essenza: sul palazzo presidenziale di Kabul è stata ammainata la bandiera rossoneroverde della repubblica islamica ed è stato issato il lugubre drappo dei talebani. La notizia si rivelerà poi una bufala, come se la gravità del fatto non bastasse già da sé ad attirare l’attenzione e fosse necessario ricercare lo scoop o calcare la mano. Ciò che, invece, è una realtà che non si cambia è che questa notizia l’ha ascoltata la madre di Giuseppe La Rosa, 31 anni e primo militare italiano a morire in Afghanistan, nella provincia di Farah. L’ha vissuta la mamma di Giovanni Bruno, caporalmaggiore 23enne, ultimo a tornare avvolto nel tricolore da laggiù. E come loro ha trafitto l’animo delle altre 51 mamme, delle altre 51 famiglie dilaniate in vent’anni da altrettanti lutti. I loro figli caduti nell’adempimento del proprio dovere, caduti perché credevano in ciò che facevano, caduti e oggi reso vano persino il loro estremo sacrificio.
La notizia viene data dalla giornalista della CNN in abaya – il velo afgano che copre i capelli e il collo lasciando scoperto il viso – e immediato sale vibrante il coro monòtono e monotòno: tutti a gridare alla libertà delle donne che ha il sapore della polemica trita e ritrita ogni qualvolta un convoglio battente il tricolore veniva colpito a fuoco e cadevano, abbattuti, i nostri militari.
Polemiche, accuse, cordoglio, funerali in pompa magna, magari in diretta, ottimi per la passerella istituzionale, Ripensamenti di circostanza e poi di nuovo un altro alzabandiera seguito dall’ammainabandiera tra le strade polverose di Kabul, di Farah, di Herat.
Man mano che iniziavano a familiarizzare con nomi quali Camp David, base avanzata, lince, rullista… già perché ogni mamma, padre, moglie o figlio “sapeva” che il “loro” soldato laggiù sbrigava pratiche di ufficio, era impiegato presso la base e non usciva in pattuglia. Per evitare polemiche, preoccupazioni, pensieri.
Gli Italiani in quella parte di Asia hanno costruito pozzi, ponti, scuole, hanno distribuito derrate alimentari e assistito la popolazione e il solo caduto civile in un conflitto a fuoco dimostra che esiste un italian style anche nel combattimento. Quel combattimento che non era nostro, quella guerra fatta per (ri?)stabilire la pace, quell’impegno assunto perché siamo “parte integrante della NATO”. E così, mentre i nostri militari laggiù erano impiegati in una “missione” di pace e di istruzione ( il neologismo ipocrita con cui (non) si USA e osa definire  guerra)  attraverso cui sono stati apprezzati dalla popolazione locale e si guadagnavano la fiducia e la riconoscenza degli “occupati”, gli ideatori a stelle e strisce della stessa missione combattevano il terrorismo islamico e il fondamentalismo religioso in un territorio che, sottoposto al loro “attento controllo”, raddoppiava, triplicava, incrementava esponenzialmente la produzione di oppio fino a diventare il primo Paese al mondo per la coltivazione di quel prodotto trasformato poi in eroina e morfina.
Cosa resta oggi degli insegnamenti alla popolazione locale dei nostri 53 ragazzi morti anche per loro? Quale introvabile altare visiteranno gli orfani degli immolati? Italiani che nel caldo asfissiante e polveroso, tra un tramonto mozzafiato e un’alba troppo giovane hanno insegnato alle locali forze di polizia il controllo del territorio, l’istruzione, il sacrificio, oggi ripagati con le immagini delle colonne di mezzi militari abbandonati sul ponte al confine con l’Uzbekistan dall’esercito americano in fuga. Quale il significato dei soldiers in ritirata che passano correndo davanti ad uno stranito militare che ha tutta l’aria di essere un nostro Carabiniere, che ancora imbraccia la sua Beretta Pm12? Strano modo quello di ripagare la sofferenza e il sacrificio dei lunghissimi e rinnovabili centottanta giorni di permanenza in territorio straniero – che poi non sono mai tali, perché il cambio non arriva mai puntuale – con militari e diplomatici saliti sui tetti per guadagnarsi il loro posto nel fuggi fuggi a bordo di un elicottero. Siamo lì per aiutare la popolazione locale – così dicono – che lasciamo dopo vent’anni abbandonata al loro destino. Che lasciamo nelle stesse condizioni di prima. Se non peggio. In mano ai talebani. O ai tagliagola dell’ISIS. Siamo lì per esportare la democrazia – ci dice l’Amerika – la sua demokrazia, per un profondo senso della giustizia e della libertà, proprio noi che siamo diventati l’Italia di Palamara. Proprio noi parliamo di libertà che siamo sottoposti silenti, dormienti e consenzienti alla folle imposizione liberticida del green pass. Cosa direbbero i 53 soldati caduti a vedere ridotta così la loro Patria, diventata ormai solo una brutta parola?
Dov’è il bastimento equipaggiato dei Boldrini, dei Del Rio, dei Letta, degli Zan che salpa repentino per andare a parlare di libertà ed emancipazione ai tagliagola del nuovo califfato islamico? E prima, hanno chiesto alle donne locali se non è un’imposizione togliere loro il velo in casa propria? È questo il frutto del nostro impegno di uomini e risorse economiche. Questo è il traguardo raggiunto dopo vent’anni. Che non sono certo un Ventennio! In vent’anni il mondo è cambiato, ma a non cambiare sono stati i talebani. Che piedi scalzi e barba in faccia hanno lottato e sconfitto la Russia prima e l’America dopo. Da umili pastori. Senza tecnologie e senza l’industria bellica dai grandi capitali. Il mondo è cambiato e la “cortina di ferro”, che ha gli anni della NATO, ha un nuovo fronte. Che è quello cinese. Che proprio USA  e UE troppo spesso sottovalutano o dimenticano addirittura. Quella UE ridotta a grande ONG, buona sola per i migranti. Quella Italia che sarà il corridoio umanitario attraverso cui passeranno anche i tagliagola, i terroristi, i fondamentalisti. Che, se non sosteranno, di certo non si limiteranno solo a passare. Forse è il caso di riconsiderare il nostro impegno nella NATO e nella UE, forse è il caso di impiegare finalmente i nostri militari per la difesa dei sacri confini della Patria, dell’Italia. Solo così un sacrificio non sarà vano nè vanificato da altri. Che è l’atto peggiore. Forse andrà considerato che non si possono servire due padroni: obtorto collo, siamo colonia dal 1943 e oggi non possiamo inventarci partner commerciali della Cina che compra l’italia a pezzi, facendoli scivolare su quella Via della Seta che è la corsia preferenziale per portarci la guerra in casa. Mentre i nostri militari vengono impiegati a fare la caccia a chi la domenica mangia gli arrosticini, piuttosto che andare a interrompere la Santa Messa. Quei militari che manganellano i loro stessi connazionali che si battono per la privazione dei diritti. Anche di quelli in divisa. Che si indignano ugualmente, pur non indossando l’uniforme, quando li vedono mangiare sulle scale della mensa con il rancio consegnato in un sacchetto di carta. Forse i talebani non stanno solo in Afghanistan, dove per adesso hanno promesso un passaggio di comando deciso, ma incruento, hanno aperto al diritto di istruzione per le donne e altre libertà che, oggi in Italia, non sono più così scontate. Manterranno le promesse? Vedremo. Ciò che, al contrario, non rivedremo più sono i 53 militari che a Kabul, a Herat, a Farah ci hanno lasciato la vita. Che l’Italia ha dato loro. Che i governanti di questa Italia  sciatta e senza dignità hanno strappato loro!