LA TRISTE STORIA DI UN OPPOSITORE DELLA POLITICA STATUNITENSE: IL CASO EMBLEMATICO DI JULIAN ASSANGE.

Se facciamo un giro in rete ci imbattiamo in una moltitudine totale di pesci, ovvero personaggi che non solo non parlano, ma, a quanto pare, nemmeno sentono. Pezzi di intellighenzia, intellettuali e pseudocolti che hanno k(ili) di seguaci – followers non rende l’idea – e che seguono a loro volta, ma che non vanno in nessun luogo e che non portano da nessuna parte. Eppure costoro hanno un’opinione su ogni cosa, dalla cucina alla geopolitica, dalla sanità alla guerra. Penne raffinatissime, frecce e punte che dovrebbero essere pronte a scoccare dall’arco e che, invece, si riducono ad essere in balia del vento; banderuole quando va bene, meri oggetti ornamentali, stracci quando va male. Mi riferisco precisamente al silenzio mediatico che è calato sulla vita – e la morte – di Julian Assange, l’hacker australiano che ha dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America. Né la liberazione di Patrick Zaki – al quale è stata concessa la cittadinanza italiana, mentre per Assange votarono onorevolmente tutti i deputati in massa – né il recente caso di Navalny, l’oppositore più temuto da Putin, sono riusciti a fare anche solo alitare sul caso Assange. Chicco Foti, invece, è stato esibito sul palco del politichese e dell’elettoralismo credulone, tronfio trionfo della incapacità onorevole deputata, prova di fiducia di quel colonialismo che ha portato, invece, ad avere un jet col motore già caldo quando le aule del Tribunale di Perugia non erano ancora state chiuse in faccia ad Amanda Knox.
Eppure, lor signori, i rivoluzionari (di carta), i cantori di gesta eroiche (del passato) che dovrebbero dettare l’agenda ed essere avanguardia, illuminati e illuminanti, sensibili e romantici sono sempre pronti a trovare il collegamento con tutto: parli del clima impazzito (ciclicamente) e vanno a tirarti fuori la tromba d’aria del Montello del 1930; parli della guerra in Ucraina e qualcuno, più coraggioso, arriva fino all’holodomor. Ma su Assange… Silenzio tombale. Profetico. Eppure il silenzio che cala, che è stato fatto calare, è la prova schiacciante che Assange ha ragione. Ma come può avere ragione un hacker, uno che si infila abusivamente e illegalmente  nei server della Difesa americana e ne mette a repentaglio la sicurezza, non solo cibernetica e a livello mondiale? Semplicemente perché ha tolto tanto trucco alla democrazia più potente dell’intero pianeta con un colpo di spugna, raccontando la verità. Ma come, in democrazia, nel Paese democratico per eccellenza, che si gloria di esportare la democrazia tanto che ce n’ha, non si può affermare democraticamente ciò che si conosce? Liberamente? A quanto pare no! La democrazia, il pilastro su cui poggia l’Aquila calva, è essenziale, ma non deve essercene troppa, altrimenti diventa una minaccia persino per sé stessa. Cosa avrà mai trovato Assange di tanto compromettente intrufolandosi negli archivi del Pentagono, della CIA, di SIS e USIC? La prima verità ad essere secretata è stata la “Collateral Murder”, l’uccisione di civili inermi a Baghdad da parte di militari americani su un elicottero che poi sghignazzano e se la ridono come matti. Persino un passante fermatosi per soccorrere, viene assassinato davanti alle figlie. Seguono le risate. Come prima.
Poi Assange, attraverso WikiLeaks, l’organizzazione da lui fondata, tira fuori ( che sta per “pubblica in rete” ) 92 file segreti sulla guerra in Afghanistan, 391mila sulla guerra in Iraq, 251287 sulla diplomazia a stelle e strisce e ben 779 schede su Guantanamo, la prigione americana che non ha bisogno di presentazioni e che potrebbe dischiudere i suoi cancelli proprio al blogger australiano. La Casa Bianca non è certo stata a guardare nel frattempo: se fare la guerra è il loro passatempo preferito, se non la ragione della loro esistenza, figuriamoci cosa possono fare con chi vuol fare loro la guerra. Non escluso Trump, che, dopo essersi affidato ai QAnon e al mondo controinformatore più variopinto, ha pensato di graziare solo chi avesse con esso reati finanziari, ma non Assange, dimostrandosi, non senza sorpresa, un americano tra gli americani.
Atto I: Assange viene accusato (e condannato) per due casi di stupro – come un Clinton o un Biden qualunque – poi ridottisi a molestie sessuali. Aperto una nuovo processo per stupro la cui accusa (meno grave) è aver avuto rapporti sessuali con due donne consenzienti senza l’uso del preservativo (da loro richiesto). Dopo la pubblicazione dei file relativi alla guerra in Iraq, Assange stesso si consegna a Scotland Yard, la polizia inglese – da sempre miglior alleato degli Usa – che lo ferma su ordine della Procura svedese per estradarlo e interrogarlo in merito alla vicenda degli stupri. Assange trova rifugio nell’ambasciata ecuadoriana di Londra, il cui allora presidente era in rapporti ostili con Washington, dove vivrà in una stanza di pochi metri quadri che avrebbe fatto impazzire chiunque. Il suo cervello, però, continua a funzionare e lui si dice pronto a rispondere ad ogni domanda dei giudici svedesi che, tuttavia, non si recheranno mai in terra inglese per interrogarlo. Gli Inglesi minacciano di portarlo via con la forza e in perfetta copia dello stile di Sigonella, circondano l’Ambasciata, che dovrebbe essere un luogo inviolabile anche in guerra. Guerra che effettivamente gli Usa stanno facendo ad Assange e viceversa  e riescono a prendere Assange facendo leva su una legge addirittura del 1917. Portato via come il peggiore dei delinquenti. Un libero cittadino, uno dei più liberi e in mondovisione. Preso in consegna e portato nel carcere peggiore di Sua Maestà, il Prison Belmarsh, il più duro del Regno Unito, insieme con detenuti pericolosissimi, ma senza uno straccio di condanna, in attesa della sentenza – che è praticamente già scritta e che decreterà o meno l’estradizione negli Stati Uniti. Cent’anni fa quasi, Qualcuno ebbe modo di dire “Dio stramaledica gli Inglesi!”: nessuno meglio di Assange potrà dire quanto queste parole siano tristemente profetiche!
Qualora la richiesta fatta alla Perfida Albione dovesse essere accolta, gli States, i democratici states, accoglieranno Assange col carcere duro, con 175 anni di isolamento, sia nella cella di 3X3 metri, senza tivvù né finestre e con lavabo e tazza in acciaio attaccata al pavimento e alle pareti, sorvegliato a vista 24 ore su 24 e con la luce sempre accesa (Ezra Pound, il pazzo, vi dice niente?), sia nelle parti comuni del penitenziario con limitazioni anche per l’ora d’aria che sarà goduta sempre in assoluta solitudine e con sorveglianza affidata ad un corpo speciale di secondini.
Un’americanata che, stavolta, non scorre sulle pellicole di Hollywood di cui tutti noi siamo passivi spettatori senza nemmeno aver scelto di seguirne il copione e che servirà a dare una lezione a chi vuole essere più democratico dei democratici. Ne hanno colpito uno per educarne cento, anche se non siamo in Cina. E a vedere lo stato di “disciplina” di reporter e giornalisti, di corrispondenti ed inviati , di editorialisti fino all’ultimo correttore di bozze, dalle tivvù di stato alle tivvù (finte) libere devono aver fatto un gran bel lavoro. Chissà, che questo silenzio non è altro che l’impegno profuso nel preparare il necrologio funebre e l’epitaffio più bello. Quelle parole vuote e vane perché postume con le quali scatterà la gara di velocità quando il boia avrà deciso, quelle parole che non serviranno a montare coscienze né a purificare cervelli, ma saranno solo catene per gli stessi giornalisti, scrittori, studiosi, intellettuali che le pronunceranno. Parole inutili, che più non serviranno. Ma che servono. Che ottimamente servono. Come questa Italia serva. Che serve.