Senza confini il mondo sarebbe cruento

Un mondo senza confini, sarebbe un mondo molto più cruento e violento di quello attuale. Grazie ai confini, quelli che i romani chiamavano limes, ovvero “linea di confine”, “limite”: una barriera per difendersi all’interno dei confini imperiali, si riesce a coesistere su questo pianeta, potendo applicare le proprie regole in base alle proprie esigenze , in maniera indipendente gli uni dagli altri. Gli stati sconfinati, con una capitale fisicamente e sentimentalmente lontana, sono ormai anacronistici, nazioni incapaci di gestire le piccole peculiarità territoriali.

Queste ultime sono  sempre più sono minacciate dall’ultracapitalismo più sfrenato che mira al livellamento più becero delle diversità: culturali, sociali, ed antropologiche: non più italiani con i propri usi e costumi, non più scandinavi o nipponici ma semplicemente consumatori universali, senza gusto, senza pensiero, semplici consumatori nevrotici di merci e di idee astratte, manipolabili, deboli, sradicati, perché un uomo senza radici, senza orgoglio, senza consapevolezza della sua storia e delle sue origini è di certo più facilmente manipolabile.
I maxi imperi della storia sono crollati, si sono sbriciolati, anche perché non si può obbligare a tenere insieme con la forza popoli meravigliosamente diversi, perché non si può pretendere che ciò che sia giusto per un popolo lo sia anche per un altro sviluppatosi a migliaia di chilometri di distanza, perché nulla è più forte dell’anelito di libertà, di autonomia, di speranza che accomuna le genti e spezza qualsiasi giogo.
Non si possono cancellare tradizioni e retaggi secolari, come si cancella una frontiera.
La più atavica delle spartizioni territoriali è la classica linea tirata in terra fra due bambini che per non continuare a litigare, arrivano ad un negoziato: “Ciò che sta aldilà è tuo, io non lo tocco senza prima chiedere il tuo permesso, da quella parte si fa come dici tu …. aldiquà quando vuoi venire, lo devi fare rispettando le mie condizioni e le mie regole“. Quindi invece di lottare all’interno di un unico maxi territorio (di tutti, ma di nessuno), in cui sarebbe guerra perenne per far prevalere una regola o un’altra su tutto quanto e tutti quanti, ognuno gestisce il proprio spazio e la propria libertà. Rispettando il principio di autodeterminazione dei popoli, ogni territorio può avere leggi e risorse destinate alle proprie esigenze, e ogni popolo può continuare a vivere come gli aggrada, senza doversi omologare a leggi che competono problematiche legate ad aree molto distanti, insomma per farla breve: ogni terra ha il suo popolo ed ogni popolo ha la sua terra. Ma cosa succede quando, non singole persone, ma intere comunità decidono di abbandonare la terra dei padri, e si dirigono verso l’ignoto? Che possibilità di crescita lasciano alle terre natie abbandonandole e cosa trovano al di là del confine? E soprattutto l’Italia è un paese di emigrazione o di immigrazione? Le situazioni sono molto differenti e variegate ma sebbene l’immigrazione sia stato un processo epocale che costantemente si è verificato nel corso della storia, oggi data la maggiore facilità nei trasporti e le continue instabilità politiche soprattutto dell’africa subsahariana ha assunto dimensioni considerevoli: secondo Eurostat, al 1º gennaio 2017 l’Italia era il quarto Paese dell’U.E. per popolazione immigrata, ovvero nata all’estero, con 6,1 milioni di immigrati, dopo Germania (12,1 milioni), Regno Unito (9,3 milioni) e Francia (8,2 milioni), appena davanti alla Spagna (6,0 milioni). Era invece il terzo Paese dell’Unione Europea per popolazione straniera, con 5 milioni di cittadini stranieri, dopo Germania (9,2 milioni) e Regno Unito (6,1 milioni) e davanti a Francia (4,6 milioni) e Spagna (4,4 milioni). E dal nostro paese c’è ancora chi si muove verso l’estero in cerca di fortuna? L’Italia sta vivendo Una terza ondata emigratoria destinata all’espatrio, che è cominciata all’inizio del XXI secolo e che è conosciuta come Nuova Emigrazione, è causata dalle difficoltà che hanno avuto origine nella grande recessione, crisi economica mondiale che è iniziata nel 2007. Questo terzo fenomeno emigratorio, interessa principalmente i giovani, spesso laureati, tant’è che viene definito come una “fuga di cervelli”. Lo scenario non è lusinghiero se pensiamo che siamo incapaci di trattenere le nostre “menti”, istruite dopo anni di formazione e che vanno a generare profitto, sviluppo e crescita in altri paesi, ed importiamo braccia, manodopera a basso costo che abbassa il costo del lavoro, le tutele dei lavoratori e diventa business ignobile ma prolifico per mafie e caporali. Secondo l’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il numero di cittadini italiani che risiedono fuori dall’Italia è passato dai 3.106.251 del 2006 ai 4.973.942 del 2017, con un incremento pari al 60,1%, se tutto ciò è rapportato al drammatico calo delle nascite e alla crisi demografica che sta vivendo il nostro paese di certo il quadro della situazione appare drammatico, in numeri:  Al 31 dicembre 2017 risiedono in Italia 60.483.973 persone, di cui più di 5 milioni di cittadinanza straniera, pari all’8,5% dei residenti a livello nazionale (10,7% al Centro-nord, 4,2% nel Mezzogiorno). Complessivamente nel 2017 la popolazione diminuisce di 105.472 unità rispetto all’anno precedente. Il calo complessivo è determinato dalla flessione della popolazione di cittadinanza italiana (202.884 residenti in meno), mentre la popolazione straniera aumenta di 97.412 unità. Il movimento naturale della popolazione ha registrato un saldo (nati meno morti) negativo per quasi 200 mila unità. Il saldo naturale è positivo per i cittadini stranieri (quasi 61 mila unità), mentre per i residenti italiani il deficit è molto ampio e pari a 251.537 unità. Continua il calo delle nascite in atto dal 2008. Per il terzo anno consecutivo i nati sono meno di mezzo milione (458.151, -15 mila sul 2016), di cui 68 mila stranieri (14,8% del totale). È necessario che gli italiani tornino a fare figli, bisogna costruire quelle condizioni sociali, economiche e culturali per dare un domani al nostro popolo perché non è di certo la sostituzione etnica, come certa sinistra paventa, la risposta a questo problema.
Da questo articolo può trasparire una visione pessimistica e arrendevole, ma non è così, c’è chi non si arrende, c’è chi lotterà allo strenuo delle forze, c’è chi non arretrerà di un passo, scusate i toni ma siamo burberi, all’apparenza severi e bruschi nel trattare col prossimo ma buoni in fondo all’animo come diceva Goldoni.