Se Renzi e Di Maio non vanno a casa grazie all’abolizione del numero dei parlamentari

Si parla tanto negli ultimi giorni del  “taglio dei parlamentari”, riforma alla cui previa e prioritaria attuazione il Movimento 5 stelle e la parte “renziana” del PD vorrebbero subordinare il ritorno alle urne.

La riforma in questione (entrando nel discorso a gamba tesa) è, in realtà, cosa nefasta per il popolo e per la democrazia e spieghiamo il perché.

In merito, c’è da dire, anzitutto, che nelle ultime 9 legislature e dunque negli ultimi 40 anni pare sia almeno l’ottava volta che il “potere” tenta di attuare questa riforma senza riuscirvi: prima del Movimento 5 stelle ci avevano provato, tra l’altro, proprio  Renzi (che con la riforma costituzionale Renzi-Boschi, respinta dal referendum del 4 dicembre 2016, aveva immaginato un senato di 95 membri elettivi di secondo grado) ma anche Massimo D’Alema (Nella XIII legislatura, nel 1997, ci provò la “Commissione D’Alema”).

Nonostante il popolo italiano si sia già pronunciato in proposito, la riforma viene periodicamente riproposta ad libitum, nella speranza evidentemente di “convincerlo” prima o poi fosse anche “per stanchezza”.

La riforma, che andrebbe a tagliare il numero dei deputati da 630 a 400 e il numero dei senatori dai 315 ai 200, modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione e, perciò, richiede, secondo la procedura di revisione costituzionale, una doppia approvazione da parte di Camera e Senato a distanza di almeno tre mesi tra una deliberazione e l’altra.

Il motivo per cui il PD renziano ed il Movimento 5 stelle insistono affinchè non si torni a libere elezioni prima dell’approvazione di tale riforma è tristemente evidente: in tal modo i tempi del voto slitterebbero di parecchio e le poltrone (di chi tornando oggi al voto non verrebbe rieletto) sarebbero ancora per un bel po’ al sicuro, come i relativi stipendi e privilegi, senza considerare poi la sempreverde speranza dei “poltronari” che, nello spazio di sei/otto mesi, gli equilibri possano nuovamente cambiare.

Vediamo anzitutto perché il taglio dei parlamentari determinerebbe lo slittamento del voto.

Trattandosi di una riforma costituzionale, entro tre mesi dall’approvazione è possibile che un quinto dei membri di una camera, oppure 500 mila elettori, oppure cinque consigli regionali chiedano un referendum confermativo.

In tal caso, la Corte di Cassazione dovrebbe esaminare la domanda e poi dichiarare ammissibile la consultazione. Dichiarata ammissibile la consultazione referendaria, bisognerebbe poi indire il referendum  in una data compresa tra i 50 ed 70 giorni successivi.

Se il referendum confermasse la legge, dovrebbero quindi passare altri 60 giorni prima delle elezioni. Infine, se anche nessuno chiedesse il referendum confermativo, ci vorrebbero comunque diversi mesi per ridisegnare i collegi.

Perchè il taglio delle poltrone  è una misura che penalizza gli elettori?

L’argomento usato per promuovere la riforma  ovvero “il numero dei parlamentari  va tagliato per risparmiare, perché costano troppo, ecc. ecc.”  è stato pensato per ottenere agevolmente il consenso dell’elettore italiano medio stanco dei privilegi riservati alla “casta” o “cricca” volendo usare la terminologia grillina.

Ma ridurre il numero dei parlamentari significa ridurre la democrazia, significa ridurre la  rappresentanza del popolo in parlamento, significa ridurre il valore ed il peso del voto di ciascun elettore: meno sono i parlamentari da eleggere e maggiore sarà il numero di voti necessario per eleggerne uno, ragion per cui ogni singolo voto avrà minore valore, nel senso che ogni singolo cittadino potrà influire di meno sulla composizione del Parlamento.

Peraltro, la composizione del Parlamento era stata  studiata dai Padri Costituenti per essere uno specchio fedele  della società ed il numero (attuale) dei parlamentari era stato deciso per una popolazione che, al tempo, era di 45 milioni di individui, mentre oggi ne siamo 61! Se la riforma venisse approvata diventeremmo il paese Ue con la maggiore squilibrio tra numero di deputati e numero di abitanti.

Insomma, ridurre in modo così drastico il numero dei parlamentari, significa incidere gravemente sulla rappresentanza dei cittadini in Parlamento, in particolare per quanto riguarda le regioni più piccole e meno popolate, poiché i parlamentari sarebbero eletti da un numero più elevato di cittadini rispetto ad oggi ed in collegi troppo grandi.

Inoltre, con molti meno seggi da assegnare, saranno solo i partiti più forti ad essere agevolati a discapito delle forze minori: un partito che ha il 14% potrebbe, per alcune regioni, non riuscire ad eleggere rappresentanti in Senato.

La riforma in discorso, in sostanza riduce il numero dei privilegiati, ma non i privilegi: se l’unico vero obiettivo è ridurre i costi, in realtà non è affatto necessario tagliare le poltrone dei parlamentari, basterebbe ridurne gli stipendi ed i privilegi, cosa che non richiederebbe, peraltro, alcuna modifica e riscrittura della Carta Costituzionale perchè sarebbe sufficiente modificare i Regolamenti Parlamentari.

Non è passata inosservata sul punto l’osservazione fatta da Marco Rizzo (Politico e Segretario Nazionale del Partito Comunista) con un tweet dove evidenzia come la riduzione del numero dei parlamentari fosse uno dei punti fondamentali del piano della P2 di Licio Gelli (!).

Se l’unico obiettivo è davvero ridurre i costi, questa riforma è una follia e resta da augurarci che, in futuro, non provino a convincerci che in realtà in Parlamento è inutile e, in nome della ulteriore riduzione dei costi, va abolito del tutto.