ILVA di TARANTO: UNA SENTENZA CONTROVERSA MA NECESSARIA!!

Negli ultimi anni la vicenda dello stabilimento siderurgico tarantino é stato al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e sindacali oltre, naturalmente, dei residenti della città pugliese, quasi ogni giorno. Una vicenda complessa che si é sostanzialmente mossa sul terreno dello scontro tra tutela della salute e diritto al lavoro delle maestranze. Sullo sfondo di una crisi perniciosa e fin troppo durevole del settore siderurgico italiano, europeo e mondiale che ha portato progressivamente alla uscita di scena dei proprietari storici dell’acciaieria ex ILVA, i fratelli Fabio e Nicola RIVA. Incalzati dai debiti e dalle prime iniziative di indagine della magistratura ionica, sui riflessi dell’inquinamento ambientale e le morti sospette per cancro fra la popolazione dei quartieri a ridosso della mastodontica acciaieria.

E poi le estenuanti trattative per evitare la chiusura degli stabilimenti, le indispensabili iniziative e i contatti istituzionali per individuare nuovi partners che potessero subentrare ai vecchi proprietari nella gestione della fabbrica metalmeccanica. Ricorderete l’ingresso nella compagine societaria di Alcelor Mittal e il tentativo repentino di fuga della multinazionale Lussemburghese a seguito del primo sequestro degli impianti da parte del tribunale di Taranto. E poi  le polemiche successive sullo scudo penale fatto sparire dal Decreto “Salva Imprese” attraverso appositi e scellerati emendamenti del PD e dei 5 Stelle, che stavano facendo saltare l’impianto dell’accordo tra Stato e impresa subentrante. Accordo necessario per la ripresa delle attività lavorative nello stabilimento di Taranto e il rientro dalla cassa integrazione di gran parte degli addetti agli altoforni, ai laminatoi e altre catene produttive fermate dai provvedimenti cautelativi della Magistratura.

Una vera e propria telenovela con colpi di teatro e “battute a sorpresa” di vari attori, sul palcoscenico del lavoro negato e della salute compromessa. Sino all’ultimo atto di lunedi scorso, con la sentenza della Corte d’Assise di Taranto che ha condannato i due fratelli Riva a 22 anni di reclusione (per Fabio) e 20 per Nicola Riva. Oltre a 3 anni e mezzo per l’ex Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola; 21 anni a Luigi Capogrosso, ex Direttore della fabbrica; 21 anni e 6 mesi per Girolamo Alchinà, ex consulente dei fratelli Riva e via via altre condanne minori per politici, tecnici e funzionari regionali per un totale di 300 anni di reclusione per 44 imputati di questo processo di primo grado. E poi, ancora, viene  disposta nuovamente la confisca degli impianti siderurgici tarantini. I reati contestati vanno dal disastro ambientale all’avvelenamento di sostanze alimentari; dall’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro alla concussione aggravata in concorso (comminata a Nichi Vendola per aver esercitato pressioni sul D.G. dell’Agenzia  per la tutela dell’Ambiente Pugliese, Giorgio Assennato (condannato a due anni), al fine di ammorbidire i rapporti e relazioni ambientali circa le emissioni nocive dell’acciaieria sul territorio circostante e sulle popolazioni locali). Il periodo osservato dai magistrati va dall’inizio della gestione dell’ILVA da parte della famiglia Riva (1995) sino al 2013, con l’uscita di scena dello stesso gruppo industriale. Una sentenza esemplare per quanto attiene al mancato rispetto delle normative stringenti in materia di tutela della salute nei luoghi di lavoro, oltre alla tutela della salute pubblica per le emissioni nocive non controllate, anzi scientificamente e scelleratamente occultate, per evitare la chiusura degli stabilimenti siderurgici o le ingenti spese per gli adeguamenti strutturali antinquinamento e le ristrutturazioni necessarie degli impianti obsoleti e fuori norma.

Una sentenza che ha parzialmente reso giustizia alle vittime dei veleni prodotti dalla fabbrica e alle loro famiglie che hanno condotto battaglie epocali e senza risparmio, perché fosse sancita la responsabilità dei vertici aziendali per le centinaia di casi di malattie oncologiche registrate nella città ionica negli ultimi 20 anni. Una sentenza che ripropone con la dovuta serietà e con i necessari supporti scientifici la questione ancora non risolta della compatibilità tra la permanenza degli stabilimenti siderurgici nei centri cittadini e la tutela della salute pubblica. E, di riflesso, il mantenimento dei posti di lavoro delle maestranze dell’acciaieria attraverso la riconversione delle lavorazioni con il ricorso all’energia pulita dell’idrogeno o l’utilizzo delle ingenti risorse previste per tale adeguamento, magari per soluzioni diverse e alternative di sviluppo eco-compatibile per l’intero polo industriale tarantino. Sono interrogativi davvero complicati da far tremare i polsi a chiunque sia chiamato a compiere tali scelte. Tenendo conto che questa ipotesi di trasformazione e di impiego dell’idrogeno per alimentare gli altoforni e produrre acciaio con procedure non inquinanti e nocive per l’ambiente, costituisce già l’opzione prescelta e recentemente annunciata dal Governo italiano (malgrado le preponderanti risorse necessarie) per sostenere il comparto strategico dell’acciaio e piuttosto rilanciarlo. Almeno nelle quantità necessarie al fabbisogno interno del nostro paese. Ed evitare di essere costretti ad approvvigionarci sui mercati asiatici, già particolarmente asfittici ed esageratamente costosi, in ragione dell’accaparramento dell’acciaio da parte della Cina, notoriamente grande consumatore del prezioso metallo, per l’industria in forte espansione di questo immenso paese in veloce trasformazione e ammodernamento progressivo.

Nel frattempo il governo é in oggettiva difficoltà. Il provvedimento della magistratura tarantina rischia di vanificare le aspettative di rilancio del polo siderurgico più grande d’Europa e di creare, in caduta, un dramma occupazionale dalle proporzioni non sostenibili da una economia già ridotta al lumicino dalla crisi pandemica. In questa realtà difficile e preoccupante uno spiraglio può essere fornito dalla prossima e attesa sentenza del Consiglio di Stato che dovrà pronunciarsi su un ricorso del TAR di Lecce di febbraio di quest’anno, che ha sancito la necessità di chiusura dello stabilimento ex ILVA per non aver, tutt’ora, impedito il rilascio di emissioni venefiche sulla città di Taranto. Il ricorso al Tribunale amministrativo era stato presentato dal sindaco di Taranto e l’opposizione al ricorso é stata avanzata da Alcerol Mittal. Il Consiglio di Stato dovrà dunque esprimere una valutazione definitiva sulla chiusura dello stabilimento o, piuttosto, sancire la natura strategica del Polo Siderurgico Pugliese per l’economia nazionale e dunque suggerire al governo di individuare, magari in tempi brevi, la migliore soluzione tecnica per contemperare (in sicurezza) la sopravvivenza dell’opificio industriale con la tutela della salute pubblica.

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